Il mutismo di Parigi

All’amante metropolitano e a Fabri

Un libro che racconta quanto una città che ha tanto da dire come Parigi lo sappia fare con poche silenziose parole. Un libro nato sulla metropolitana, frutto non di una ma di tante persone. Grazie a tutti quelli che ci hanno messo del proprio, a Carlotta perché senza di lei questo libro non sarebbe nato, a Sara e Antonella che hanno contribuito alla sua riuscita; e poi grazie anche alla signora con i quaderni in mano che rideva senza aver capito e al signore distinto seduto davanti a me.

C’era un sottile brusio che si sentiva nell’aria ma talmente sottile che spesso svaniva senza lasciare traccia. I francesi erano così, silenziosi ed educati senza grandi slanci di parole o di gesti, sempre molto controllati, sempre molto chiusi nella scatola di latta della propria vita. Non una manifestazione di affetto né una lacrima di dolore, ogni emozione era pesata e preconfezionata perché non facesse qualche cattivo scherzo davanti agli altri. Mi dava un sottile senso di velata tristezza. Era scomparsa la spontaneità tipica della nostra terra. Non c’erano i sorrisi e i caldi abbracci che ero solita osservare dalle mie parti.

Indifferenza. Ognuno con il suo mondo che si separava con un alto muro da tutti gli altri mondi presenti.

Gentilezza sì, grande gentilezza. Si sentivano molti “merci” o “pardon”, tanto che a volte ostentavano una educazione estrema; ma poi ognuno se ne tornava nel proprio guscio di ferro e si isolava da quel mondo comune.

Silenzio. Muti, sembravano tutti muti o quasi.

Noi ci distaccavamo un po’ da questo silenzioso stile francese. Non potevamo abituarci in così poco tempo a non fare commenti a voce piuttosto alta o a non ridere di gusto o comunque a non far vedere sul nostro volto se eravamo felici o arrabbiate.

Temo però che se avessimo soggiornato più a lungo saremmo state, come minimo, molto influenzate da questo lor muto parlare e forse ci saremmo lasciate coinvolgere fino ad imparare l’autocontrollo estremo sulla nostra vita.

Così non fu. Erano passati tre giorni da quando eravamo approdate nella città dei sogni. Eravamo in quattro, tutte donne.

Corremmo molto per quella strana e affascinante città per poter conoscere le sue meraviglie da vicino. Quella sera del terzo giorno eravamo distrutte dalla stanchezza. Ci eravamo avviate a prender la metro per andare a cena e poi saremo andate a letto presto perché anche l’indomani ci aspettava una giornata intensissima.

Eravamo alla fermata della metro, questa arrivò come sempre nella sua puntualità che sfiorava l’eccesso.

Io salii per prima e, dato che a quell’ora la metro era completamente piena, mi sistemai nel corridoio sorreggendomi a uno dei due pali centrali. Nel salire notai con piacere il ragazzo seduto proprio vicino alla porta: davvero molto “interessante” se così si può definire. Lo guardai a lungo e poi comunicai a Carlotta il mio compiacimento verso cotanta bellezza. Ella, dai modi gentili e fini, tipici di una ragazza toscana proveniente dalla campagna, affermò con soddisfazione che non condivideva affatto il mio compiacimento, bensì pensava che colui, il quale a me pareva tanto bello, fosse, d’altro canto, piuttosto laido e antiestetico.

Nell’ascoltar tali parole io mi incollerii e volli, per aver conferma della bellezza di tale giovinetto, chieder a Sara che cosa ne pensasse. Questa, a suo modo raffinata, disse che si sarebbe voltata qualche minuto dopo e con circospezione per evitar di far insospettire il diretto interessato, che, anche se non capiva la lingua, avrebbe comunque potuto sentirsi osservato.

Voltatatasi dopo poco espresse il suo pensiero con un soave suono che parmi più o meno fosse questo: “oibò”! E aggiunse inoltre tali e tanti discorsi da farmi rimaner piuttosto male. Disse che avevo gusti davvero poco comprensibili e che mi piacevano gli uomini “pottini e ingellatosi”e con le maglie attillate.

Or io mi imbestialii e controbattei che cotale giovine sarebbe stato bello anche spogliato da quei panni che coprivano il suo corpo e senza nulla nei capelli, così anche allo stato naturale come mamma lo aveva fatto.

Nel mentre Antonella, voltatasi anch’essa per la curiosità verso il giovine di cui sto raccontando e che per tutto il tempo non alzò mai lo sguardo dalle sue scarpe, sostenne invece la mia opinione, dicendo che non si poteva negar che questo uomo fosse piacevole a guardarsi. Fu l’unica che però seppe parlare con toni bassi e pacati, i suoi toni tipici sui quali io e Carlotta saltuariamente discutevamo.

Sara, imperterrita nelle sue convinzioni, sostenne che lei prediligeva l’uomo chiaro di capelli, “biondino” come disse lei.

Indispettita ancor di più affermai con intrepidezza che invece l’uomo moro, un “bel morone” come dissi allora, con occhi e capelli scuri, è da preferire rispetto ai biondi. La discussione durò molto e ognuno sosteneva la sua parte.

Carlotta intanto, voltando lo sguardo, notò un distinto signore seduto accanto all’altra porta e disse che lui sì che sarebbe potuto esser il suo uomo ideale: aveva una lunga cravatta, una giacchettina a pieghe e dei pantaloni. Di un’età non definibile. Sara con ingenua franchezza affermò che cotale soggetto sarebbe potuto esser “sù padre”, usando sue parole.

Intanto io ero persa nella meditazione del moro e sentivo in lontananza Carlotta dire che era speranzosa sul fatto che su quella linea non ci sarebbe stato nessun italiano che poteva capire le nostre discussioni.

Poi ci guardammo intorno e notammo il silenzio che ci circondava, solo noi parlavamo.Tutti gli altri zitti. E’ qui che nacque il mutismo.

Riflettemmo anche su questo, senza mancar di far apprezzamenti di piacere o di disprezzo sul moro che tanto mi aveva colpito.

Ello non si mosse per lungo tempo, come assorto nei suoi pensieri, con la testa china verso terra. Allor a un certo punto avvenne che colui alzò la testa, si voltò verso l’amico seduto di dietro e disse, con un tono di voce mansueto e blando, “Fabri la prossima è la nostra, vero?”.

Appena le mie orecchie udirono tali parole il mio corpo si voltò di scatto verso il lato opposto del corridoio, subendo una flessione verso terra per il riso disperato che nacque sulla mia bocca il quale, per sua grande intensità, determinò la caduta di sostanziose lacrime dai miei occhi. Nel mentre piegata ridevo e contemporaneamente piangevo, notai che anche Carlotta era ugualmente nelle mie stesse pietose condizioni e peggio ancora continuava imperterrita a ripeter la frase “piango, Bene io piango troppo”… e ridendo anch’ella piangeva lacrime. Allorché notai una signora, ella almeno pareva davvero francese, con dei quaderni in mano che rideva come a volersi congratulare con noi per l’ingrata sceneggiata che l’aveva colpita pur non avendo appreso su che cosa stessimo discutendo e come mai ora ridessimo e piangessimo contemporaneamente. Gentilmente però questa signora si fece da parte e mi fece sedere al suo posto, preoccupata che la mia posizione accucciata non fosse delle più sicure su una metropolitana.

Sara che anch’ella era disperatamente piegata verso terra con un tono di voce non ben definibile chiese “ma noi dove scendiamo?”, allorché la metro si era giustappunto fermata laddove sarebbero scesi il nostro, mio, amante metropolitano e l’amico Fabri. Io con decisione le dissi che bastava sceglier una fermata diversa da quella per evitar di aggravare la nostra causa ancora per molto.

Nel frattempo con la coda dell’occhio vidi Carlotta che salutava con una mano coloro i quali stavano scendendo alla loro fermata e che divertiti ridevano di gusto e con una velata soddisfazione.

Le nostre condizioni di salute e mentali furono turbate ancora per molto, tanto che, quando scendemmo alla fermata successiva, non riuscimmo minimamente a spostar i nostri corpi che si erano come inchiodati in terra e non volevano proprio tentar di salire neanche le scale, che, fra le altre cose, erano mobili.

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